IL VESTITO DELLA FESTA STORIA DI EMANUEL, PICCOLO ATTORE ROM Giannetta Musitelli Responsabile segreteria Teatro Scuola
Non solo hanno abitato ai margini delle nostre città, ma anche da vittime sono restati ai bordi della nostra magra misericordia Erri De Luca “ da Alzaia”
Ottobre 2007. C'è fervore in aula; questa mattina aspettiamo un nuovo bambino. E' una classe seconda, la maggioranza sono bambini stranieri arrivati da poco. Tanti volti particolari, lingue diverse, tante storie. Siamo tutti ansiosi di capire come sarà il nuovo compagno. Ecco, si apre la porta. Un paio di occhi grandi e nerissimi mi fissano, un viso straordinariamente mobile, un ciuffo scuro e ribelle, un passo scattante. Si guarda intorno. Non è impaurito, non è ansioso. E' soltanto curioso e ha fretta, fretta di trovare il posto, fretta di capire dove sarà collocato. Si fa silenzio. Abbiamo capito tutti che questo compagno è speciale, porta con sé un'energia incredibile che si sente oltre le parole, che si manifesta nel silenzio. “Sono Emanuel, sono Rom, il mio campo sotto il ponte della tangenziale a San Donato è stato distrutto settimana scorsa dalla polizia. Eravamo tutti addormentati e siamo stati svegliati all'improvviso e cacciati fuori al buio e a freddo. Hanno portato via il mio papà. Ora ci hanno messo in una casa: mia mamma io e i miei tre fratelli. Io non voglio stare qui e appena avremo costruito un altro campo me ne andrò via”. Un fiume di parole, quasi senza respiro, per dire che si sentiva prigioniero, che non aveva voluto lui venire a scuola, che voleva tornare per le strade, a riempire le sue giornate tra accoglienza e rifiuto, sorrisi e insulti. Si è seduto vicino a Catalin, un bambino rumeno, anche lui appena arrivato dalla Romania. Si sono sentiti subito solidali, si sono parlati. Due lingue della stessa terra, con accenti diversi, ma comprensibili. Emanuel non è più solo. Non è quasi mai andato a scuola, non sa leggere e scrivere. “Non voglio imparare – dice -, non serve a niente”. I bambini avvertono il fascino di un ragazzino che rifiuta la scuola, le sue regole, le sue fatiche. Ma io sento che in lui c'è tanta rabbia per l'ingiustizia subita tante volte nella sua breve esistenza, per la solitudine a cui è stato costretto. Percepisco che Emanuel ha nel suo cuore onde magiche di suoni che narrano di posti meravigliosi e viaggi infiniti, gonne colorate e donne che ballano a piedi scalzi, fuochi scoppiettanti e canti per scaldare la notte. Sento la sua tremenda nostalgia per una vita così diversa dalla nostra.
Da poco abbiamo iniziato i laboratori di teatro per preparare la veglia di santa Lucia. La classe è piena di materiali che servono per costruire le scenografie. Ci sono dappertutto attrezzi di lavoro e poi tanti libri per la ricerca sul tema della santa dei doni. Emanuel insofferente di stare seduto tanto tempo si alza e comincia a girare per la classe. Si ferma davanti ad ogni oggetto che vede, mi guarda, ma non parla. Io aspetto e intanto organizzo il lavoro in gruppo. Poi lo vedo che si avvicina allo scaffale con i libri. Comincia a sfiorare le copertine come se avesse paura di farsi male o di prendere la scossa, tanta è l'emozione che prova. Li accarezza con la delicatezza di una farfalla che si posa su un fiore, e aprendone alcuni, chiude gli occhi, perché, mi dice poi, gli sembra di volare in quei mondi fatti per i sogni dei bambini.
Improvvisamente scorge lo xilofono, là sul tavolo in fondo all'aula. Con emozione e tenerezza prende il piccolo battente e comincia a suonare. Ed è subito silenzio. Le pareti dell'aula scompaiono, il soffitto si apre, piove una struggente melodia che ci trasporta in alto, quasi a toccare le nuvole. E' un giorno di sole freddo e pungente, ma quella musica riscalda l'anima, è puro cristallo che canta il lacerante dolore per aver perso la libertà, il sogno di cammini e rincorse, il soffio del vento che fa oscillare papaveri rossi. Poi più nulla. Emanuel piange in silenzio. Si avvicina a me, mi dice “Grazie!” E sussurra “aiutami a imparare a leggere, aiutami a essere bravo. Forse così potrò tornare libero, forse così capiranno che anche noi Rom siamo brave persone”.
Emanuel diventa parte della classe, è allegro, caparbio, si impegna fino allo spasimo per imparare a leggere e a scrivere. Corre, corre sempre di più, raggiunge gli altri, si porta a casa i libri che impara ad amare come cose preziose.
8 dicembre 2007. Piazza San Lorenzo. Veglia di santa Lucia. I bambini arrivano alla spicciolata, pronti per lo spettacolo. Manca Emanuel. Speriamo che la sua mamma si ricordi, speriamo che arrivi in tempo. Ed eccolo, trafelato, arriva accompagnato dalla bellissima mamma. Lui indossa un completo da uomo gessato con la camicia bianca, la cravatta, le scarpe nere stringate, lucidissime. La sua mamma porta con eleganza una lunga gonna fiorita, uno scialle, un fazzoletto in testa. “Ma Emanuel avrai freddo così leggero”. “Questa è una festa meravigliosa, e noi alle feste andiamo con il nostro vestito più bello”. Quale orgoglio, quale senso del valore di una festa che significa comunità, scambio, gioia. Quale ricchezza di sentimenti è racchiusa in un popolo dalle tradizioni per noi sconosciute!
Emanuel se n'è andato altrove, con la sua mamma e i suoi fratelli, in un nuovo campo nomade. Ho perso le sue tracce. Ma il suo viso, i suoi occhi sono rimasti scolpiti dentro di me. Prima di andarsene mi ha salutato mettendomi tra le mani un foglietto stropicciato, umido di lacrime: “Sono nato libero, come l'aria, come l'acqua del fiume, come il vento della tempesta. Con voi ho scoperto un'altra libertà: conoscere, sapere sempre di più. Suonerò il violino come mio nonno e ogni volta che le mie mani faranno nascere la musica suonerò per voi che per la prima volta mi avete voluto bene. Io sarò sempre Rom, ma il mio cuore resterà per sempre un po' vostro prigioniero”.
PROVE DI RE-(E)SISTENZA, DI TEATRO E DI LIBERTA’ Giacomo Camuri Coordinamento didattico-scientifico Teatro-Scuola
Perché Teatro? E Teatro nella scuola? E’ la congiuntura del presente a rendere ancor più stringente la domanda e a far emergere i sospetti e i pregiudizi che albergano in tanto senso comune. Che il Teatro costituisca una forma di spettacolo tendenzialmente marginale è fuor di dubbio. La storia novecentesca dei media è irrotta sulla scena sociale della comunicazione travolgendone in gran parte le forme consolidate in secoli d’uso più o meno lontani. Cinema, radiofonia, televisione, tecnologia digitale hanno inondato di immagini visive e sonore lo spazio e il tempo di una quotidianità che si è fatta essa stessa sempre più oggetto di spettacolo. La fortuna di un format, il reality show, la colonizzazione ambientale delle telecamere in ragione della sicurezza, la messa in rete di frammenti d’esistenze confezionati in micro-episodi che ne dilatano talvolta la banalità, il desiderio di trasgressione, l’ostentazione oscena, la capillare diffusione degli schermi piatti nei luoghi di transito sono a dimostrare, se non ce ne fosse bisogno, l’avvenuta trasformazione del mondo in un set planetario. Non c’è stanza, stambugio, deposito, non c’è vicolo, via, piazza, non c’è luogo o nonluogo che non sia potenzialmente oggi disposto ad accogliere una scena. Perché allora Teatro, una forma forse un po’ fuori moda e per certi aspetti regressiva di rappresentazione?
La scuola poi, si sa, è in condizioni d’emergenza. Una crisi strutturale l’attraversa. Le risorse scarseggiano, Gli ambienti spesso sono a rischio, necessitano di una manutenzione che non si fa. Le tecnologie, tuttavia, avanzano, premono alle porte, hanno fretta, prima o poi le scardinano, esondano tra comportamenti restii all’innovazione e conflitti procedurali. Dunque le scelte paiono obbligate: dove orientare gli investimenti, concentrare l’attenzione? La multimedialità ha i suoi costi e le sue metodiche, i suoi rituali di iniziazione e i suoi processi coerenti di formazione. Perché tornare a far Teatro quando l’urgenza dello stare al passo con i tempi dettati dall’economia e dal mercato richiedono capacità e competenze che di primo acchito paiono di tutt’altro genere? Il corpo si minimalizza, le mani si riducono alle dimensioni delle dita, lo sguardo si contrae alla misura dello schermo, l’ambiente si rovescia, come Alice, nell’iperspazio della rete, la mimica facciale si traduce in icone emozionali, l’ordine del Discorso prende nuove strade e nuovi formalismi linguistici attendono di essere appresi e utilizzati. Per molti oggi nella scuola e fuori della scuola potrebbe risultare uno spreco di denaro o un non senso l’investire nella realizzazione di laboratori scolastici di Teatro. Perché allora insistere, o meglio, resistere nel continuare a promuovere fin nei primi luoghi deputati all’educazione l’esercizio o la disciplina del Teatro?
Le ragioni di tale resistenza − di una resistenza necessaria parlava già alcuni anni fa uno dei massimi studiosi di mondi contemporanei Marc Augé nell’epilogo de La guerra dei sogni. Esercizi di etnofiction − sono molteplici e di un duplice ordine. Vi sono ragioni legate alle circostanze storiche e ragioni più strutturali, connesse alle condizioni d’esistenza. Ne prendiamo in considerazione solo per cenni alcune, forse le più esemplificative. Il corto circuito, in cui si trovano irretiti non da oggi economia e mercato dei paesi così detti avanzati, con l’aumento in picchiata della disoccupazione non solo giovanile a seguito della crescente disarticolazione delle imprese artigianali e della messa in mora di consolidati modelli industriali, colpisce nel dettaglio stili di vita, rivoluziona relazioni assodate, porta allo scoperto interessi e responsabilità, smuove in profondità emozioni e risentimenti, fluidifica in modo inatteso status e ruoli sociali, genera incertezza e fragilità da cui si evincono i segni certi e di lunga durata di una crisi di sistema che interpella a tutti i livelli, personali, interpersonali, istituzionali una rimessa in gioco di valori di Senso. Una rimessa in gioco che non può venire dal cielo ma da assunzioni di responsabilità, da valutazioni dei rischi, da una riscoperta dei valori della sobrietà e della partecipazione, come Giorgio Gaber cantava con profetica lucidità. Una rimessa in gioco che non compete solo a generazioni d’adulti, fautori e vittime di tanto disastro, ma ancor più richiede una forte azione educativa, centrata, come ci hanno insegnato le culture dell’iniziazione giovanile, relegate il più delle volte nella sfera dell’arcaico e del primitivismo, sul guadagno di un’autonomia reale, sullo sviluppo di competenze e di capacità di rischio, sulla costruzioni di personalità complesse, sulla dedizione a imprese collettive. E qui si pone il Teatro con la sua storia − una storia intima, pregnante, nutrita dalla prossimità ai drammi della vita dai tragici greci agli autori dei nostri tempi, basti pensare a Pirandello, a Brecht, a Testori, a De Filippo, a Fo − e con il suo carrozzone nomadico di linguaggi, di arti, di strumenti e oggetti di scena. Proprio il Teatro, a dispetto di molti, è forse l’esperienza formativa ancora oggi più completa per la complessità di condizioni che mette in gioco: non separa la voce dal corpo, il corpo dalle emozioni, le emozioni dall’intelligenza che sa cogliere negli attimi di tempo e nelle opportunità di spazio il giusto avvio o il coerente proseguo per un agire in scena, crea relazioni significative tra individui che si integrano ricchi delle loro diversità nell’appartenenza a un corpo comune, accresce equilibrio laddove la tensione può sfociare in conflitto, abitua al rischio, s’appella al senso critico, apre alla scoperta e all’interpretazione di universi d’arte, di musica, di letteratura altrimenti sempre altri (è vera scuola!), incita all’intraprendenza e alla creatività. Ma ecco farsi strada un secondo ordine di ragioni, potremmo dire, meta-storiche, codificate nell’architettura e nelle dinamiche dell’esistenza, aspetti da non perdere di vista nella progettazione dei percorsi formativi pensati per le diverse stagioni della vita.
Vi è una connaturale solidarietà tra corpo e teatro. Ad un’attenta osservazione, in linea con le analisi di un altro grande maestro del pensiero filosofico del nostro tempo Jean-Luc Nancy, il corpo è «corpo teatro», da qui il titolo del saggio edito in Italia nel 2010. Il corpo, egli afferma, non consiste semplicemente in un “essere” − “quale che sia il significato che si voglia attribuire a questa parola”− il corpo in se stesso è già molto di più: è “presentazione”, porsi, venire in presenza, è a ben vedere articolazione di “un essere che appare e nel suo apparire è da sempre un esser-là che implica la compresenza − distanza, prossimità, interazione − di altri corpi”. Vi è dunque una teatralità che procede dall’esistenza e con l’esistenza, da quell’essere che “dà segno di se stesso, che si dà a sentire non in una semplice percezione ma come densità e come tensione” (così insegna la storia vera di un bimbo rom narrata da Giannetta Musitelli). Una teatralità che si ricapitola ogni volta che si viene al mondo, ogni giorno all’aprirsi delle palpebre. Ma non già perché il mondo sia uno spettacolo, così com’è non lo può essere. Ma per le dinamiche interne dell’esistenza che è un mettersi in scena, un avanzare da un punto immateriale, da un punto di fuga o da uno sfondo oscuro come è per la visione che si dà a partire da una macula, da un punto cieco. Una teatralità che appare in un desiderio, in una pulsione di pro-getto, in un venire alla presenza in maniera semplice e discreta di un soggetto che si mette in scena dinnanzi al sipario alzato su quell’oscurità della dimensione più profonda e nascosta del se stesso. Il corpo è propriamente, scrive Nancy, “ciò che viene, si avvicina su una scena e il teatro è ciò che dà luogo all’avvicinarsi.” E l’avvicinarsi del corpo assume i caratteri della Creazione, del delinearsi del dramma che attraversa il cosmo e l’esistenza e che è proprio dell’azione che nel suo compimento porta dentro di sé il senso di un’attesa. Nel suo presentarsi il corpo così si apre e si carica di tensione, la tensione della parola, la tensione dei sensi, la tensione stessa della pelle. In Teatro tutto il dramma del corpo, del suo farsi Creazione si ricapitola in modo esemplare. Per questo Paul Claudel faceva dire a un attrice: “Vale la pena di andare a teatro per vedere che accade qualcosa. Capite! Che accade per davvero! Che comincia e finisce!” Ciò che comincia e finisce, e mai potremmo vedere senza il Teatro, è il senso del dramma completo della nostra esistenza. Tornando alla scuola e ai suoi laboratori potremmo dire, parafrasando Claudel: capite che in quel tempo, apparentemente sottratto alle materie, e in quegli spazi ricavati qua e là per le scuole, a dispetto talvolta dei bidelli che inorridiscono al pensiero delle sedie e dei tavoli spostati, è in gioco la partita educativa più importante, la possibilità di portare a coscienza, ad una coscienza incarnata, sempre più difficile da trovare sul terreno della finzionalizzazione imperante, l’enigma del corpo con il suo labirintico intreccio di dispositivi che compongono la mente che ogni giorno tesse la tela del mondo, Da qui la speranza di libertà e di nuove vie d’uscita.